Forugh Farrokhzad

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Saluterò di nuovo il sole

Saluterò di nuovo il sole,
e il torrente che mi scorreva in petto,
e saluterò le nuvole dei miei lunghi pensieri
e la crescita dolorosa dei pioppi in giardino
che con me hanno percorso le secche stagioni.

Saluterò gli stormi di corvi
che a sera mi portavano in offerta
l’odore dei campi notturni.

Saluterò mia madre, che viveva in uno specchio
e aveva il volto della mia vecchiaia.
E saluterò la terra, il suo desiderio ardente
di ripetermi e riempire di semi verdi
il suo ventre infiammato,
sì, la saluterò
la saluterò di nuovo.

Arrivo, arrivo, arrivo,
con i miei capelli, l’odore che è sotto la terra,
e i miei occhi, l’esperienza densa del buio.
Con gli arbusti che ho strappato ai boschi dietro il muro.

Arrivo, arrivo, arrivo,
e la soglia trabocca d’amore
ed io ad attendere quelli che amano
e la ragazza che è ancora lì,
nella soglia traboccante d’amore, io
la saluterò di nuovo.


                                        

La Conquista del Giardino

Quel corvo che volò
sopra le nostre teste
e discese sul pensiero confuso di nuvole vagabonde,
e la sua voce come lancia che attraversa
la distesa dell’orizzonte,
porterà con sé in città il nostro annuncio.

Tutti lo sanno,
tutti, lo sanno
che io e te abbiamo visto il giardino,
da quella fessura fredda e triste,
e da quel ramo danzante, lontano,
abbiamo colto una mela.

Tutti temono,
tutti hanno paura, ma io e te
siamo legati alla fiamma all’acqua allo specchio
e non temiamo nulla.

Non parlo del debole legame fra due nomi
e di un abbraccio nelle pagine ingiallite di un quaderno.
Parlo dei miei capelli baciati dalla fortuna
con i papaveri bruciati del tuo bacio.
E dell’intimità dei nostri corpi, serrata,
e della nostra nudità che luccica
come scaglie di pesci nell’acqua
parlo della vita d’argento di una voce
che all’alba mormora uno zampillo minuto.

Noi in quel bosco che scorre
abbiamo chiesto una notte ai conigli selvatici
e nel mare gelido e in tormenta
abbiamo chiesto alle conchiglie piene di perle
e nella montagna estranea e vittoriosa
abbiamo chiesto alle giovani aquile:

Cosa bisogna fare?

Tutti lo sanno
Tutti lo sanno
abbiamo trovato il sentiero nel sogno freddo
e silenzioso delle antiche fenici.

Abbiamo trovato la verità nel giardino,
nel timido sguardo di un fiore senza nome.
E l’eterno nell’attimo sconfinato
in cui due soli si fissano incantati.

Non parlo di un brusio atterrito nel buio
parlo del giorno e delle finestre aperte
e dell’aria fresca
e delle cose inutili da ardere nel fuoco
e della terra feconda di una nuova semina,
della nascita, dell’eterno, dell’orgoglio.

Parlo delle nostre mani innamorate
che sopra le notti hanno costruito un ponte
con il messaggio di luce del profumo e della brezza.

Vieni sul prato
Vieni sul prato
sul vasto prato
e chiamami
alle spalle del fiato del fiore di seta
come una gazzella chiama la sua metà.

Le tende si gonfiano di rancore celato
e i piccioni innocenti,
dall’alto delle loro torri bianche,
guardano la terra.


                                        

Una finestra

Una finestra per vedere
una finestra per sentire
una finestra che come bocca di un pozzo
giunga in fondo al cuore della terra.
E si apra lungo questa continua grazia azzurra,
una finestra che nel favore notturno del profumo di nobili stelle
trabocchi di piccole mani della solitudine,
e da lì potremo invitare il sole
all’esilio dei gerani.

Mi basta una finestra.

Vengo dal paese delle bambole
sotto l’ombra di alberi di carta
nel giardino di un libro illustrato
dalle stagioni secche dell’esperienza arida dell’amicizia e dell’amore]
dai sentieri polverosi dell’innocenza
dagli anni fiorenti nelle pallide lettere dell’alfabeto
da dietro i banchi di una scuola malsana
quando i bambini ormai sapevano
scrivere sulla lavagna la parola pietra
gli stormi confusi volarono dai vecchi alberi.

Vengo dal cuore fra le radici di piante carnivore
e la mia testa ancora
trema all’urlo terribile di una farfalla
crocifissa sull’album con uno spillo.

Quando la mia fede era impiccata alle fragili corde della giustizia
e in tutta la città
facevano a pezzi il cuore dei miei occhi,
quando soffocarono con il fazzoletto nero della legge
gli occhi infantili del mio amare
e dalle tempie pulsanti della mia speranza
sgorgavano fiotti di sangue,
quando la mia vita ormai non era più nulla,
nulla, se non il tic-tac di un orologio,
capii che dovevo amare,
amare, amare follemente.

Mi basta una finestra.
una finestra nell’ora dell’intesa, dello sguardo, del silenzio.
Adesso l’albero di noci è talmente cresciuto
che spiega alle sue giovani foglie
la presenza del muro.

Chiedi allo specchio
il nome che ti salverà,
la terra che freme sotto i tuoi passi
non è più sola di te stessa?

I profeti del nostro tempo
hanno forse portato le scritture della rovina?

Queste esplosioni continue,
e le nuvole sporche
sono forse l’annuncio di un canto sacro?

Tu, amico, tu, fratello, tu che hai il mio stesso sangue
quando arriverai sulla luna
scrivi la storia della strage dei fiori.

Sempre i sogni
s’infrangono dall’alto e muoiono,
io annuso il quadrifoglio
che spunta sulla tomba di antichi sensi.

La donna che divenne polvere nel sudario dell’attesa e del pudore,]
era forse la mia giovinezza?
Salirò di nuovo, io, per le scale della curiosità
per salutare il buon Dio che cammina sul tetto di casa?
Sento che il tempo è trascorso
sento che è un istante la mia parte
tra le pagine di storia
sento che il tavolo è il pretesto di una pausa
tra i miei capelli e le mani di questo triste sconosciuto.

Parla, parla con me
esiste forse qualcuno che conceda a te il suo corpo caldo?
E da te non desideri altro che sentire la vita che scorre?
Parla, parla con me,
salva,
al riparo della mia finestra,
sono amica del sole.


                                        

Il mio uomo

Il mio uomo
con il suo corpo nudo e disinvolto
come la morte s’innalza,
sulle sue cosce vigorose.

S’intrecciano le fibre
delle sue membra nervose
al disegno solido del suo corpo.

Il mio uomo dai tempi andati
dalle generazioni perdute sembra giunto.
Un tartaro nel taglio dei suoi occhi
in agguato dei viandanti,
un barbaro nel guizzo splendente dei suoi denti
incantato dal sangue caldo
della preda.

Il mio uomo
come la natura,
volge al senso ineluttabile
di una comprensione chiara
lui, con la mia disfatta
conferma la legge inappellabile
della forza.

Terribilmente libero,
simile a un istinto puro
nel cuore di un’isola alla deriva.

Della polvere delle strade
lui si libera, con i resti
della tenda di Majnun, antico Folle d’amore.
Il mio uomo
come un dio nei templi del Nepal
da sempre un’esistenza da straniero.

Lui,
è un uomo dei secoli passati
memoria d’una bellezza d’altri giorni.
Risveglia intorno a sé
continuamente come l’odore un bambino
il volto di pure memorie.

Lui come ballate di villaggio
irrompe violento puro nudo.

Sinceramente ama
i grani della vita
i grani della terra
le tristezze degli uomini,
le limpide tristezze.

Sinceramente ama
il sentiero verdeggiante di un villaggio
un albero
un coccio antico
i panni stesi al sole.
Il mio uomo
è un essere semplice,
un essere semplice che io
dalla terra nefasta e volgare
ho nascosto nei boschi dei miei seni,
come ultimo segno
d’incantevole religione.


                                        

Un’altra nascita

La mia intera vita è un canto oscuro
che nel continuo ripeterti
ti porterà all’alba di eterne crescite e fioriture.
Ti sospiro, oh, e sospiro in questo canto
in questo canto ti ho unito all’albero
ti ho unito all’acqua
ti ho unito al fuoco.
Forse la vita
è una lunga via attraversata ogni giorno da una donna con una cesta in mano]
forse la vita
è una corda con cui un uomo si appende dal ramo di un albero
forse la vita è un bambino che torna da scuola e…
Forse la vita è una sigaretta accesa, nella languida pausa fra due amplessi]
o un passante che passa stupito
e solleva il cappello
e – Buongiorno! – dice, con un sorriso senza senso a un altro passante.]

La vita forse è quel momento serrato
in cui il mio sguardo si annulla nelle pupille dei tuoi occhi,
presentendo che mi mescolerò
alla comprensione della luna, alla conquista del buio.

In una stanza grande quanto una solitudine
il mio cuore
grande quanto un amore
attende i pretesti semplici della sua felicità
e il delicato appassire dei fiori nel vaso
e l’alberello che hai piantato nel giardino di casa nostra
e la voce del canarino
che canta nello spazio di una finestra.

Ecco,
questa è la mia parte
questa è la mia parte
la mia parte
è un cielo che una tenda scosta da me
la mia parte è venir giù da gradini abbandonati
e raggiungere una cosa appassita d’altri tempi
la mia parte è una passeggiata malinconica nel giardino della memoria.]

E morire nella tristezza di una voce che mi dice
– Amo, amo le tue mani –

Seminerò le mie mani in giardino
diverrò verde, lo so, lo so,
lo so,
e le rondini deporranno le uova
nelle pieghe delle mie dita sporche d’inchiostro.
Incollerò alle mie unghie due petali di dalia,
e indosserò i due rossi orecchini
di due rosse ciliege gemelle.

E c’è una strada dove i ragazzi che mi amavano
sono ancora lì
con i loro capelli spettinati e i colli sottili e le gambe magre,
pensano ancora al sorriso innocente di quella ragazza
che una sera il vento portò via con sé.

C’è una strada che il mio cuore
ha rubato ai quartieri dell’infanzia.
Il viaggio di una sagoma lungo la linea del tempo
fecondare con una sagoma la sterile linea del tempo,
la sagoma conscia di un’immagine
che poi ritorna
da una festa nello specchio.

Ed è così che qualcuno muore
e qualcuno resta.
Nessun pescatore raccoglierà mai la perla dall’esile ruscello che sfocia in un fosso.
Conosco una piccola triste fata
che vive nell’oceano
e suona il suo cuore in un flauto di legno,
piano piano,
piccola triste fata,
che a notte muori con un bacio
e all’alba, con un bacio,
tornerai al mondo.

Forugh FarrokhzadLa strage dei fiori. Cura, introduzione, traduzione e note di Domenico Ingenito, Napoli, Edizioni Orientexpress, “Le Ellissi” 2007.