Giorgio Caproni

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Ultima Preghiera

Anima mia, fa’ in fretta.
Ti presto la bicicletta,
ma corri. E con la gente
(ti prego, sii prudente)
non ti fermare a parlare
smettendo di pedalare.

Arriverai a Livorno
vedrai, prima di giorno.
Non ci sarà nessuno
ancora, ma uno
per uno guarda chi esce
da ogni portone, e aspetta
(mentre odora di pesce
e di notte il selciato)
la figurina netta,
nei buio, volta al mercato.

Io so che non potrà tardare
oltre quel primo albeggiare.
Pedala, vola. E bada
(un nulla potrebbe bastare)
di non lasciarti sviare
da un’altra, sulla stessa strada.

Livorno, come aggiorna,
col vento una torma
popola di ragazze
aperte come le sue piazze.
Ragazze grandi e vive
ma, attenta!, così sensitive
di reni (ragazze che hanno,
si dice, una dolcezza
tale nel petto, e tale
energia nella stretta)
che, se dovessi arrivare
col bianco vento che fanno,
so bene che andrebbe a finire
che ti lasceresti rapire.

Mia anima, non aspettare,
no, il loro apparire.
Faresti così fallire
con dolore il mio piano,
e io un’altra volta Annina,
di tutte la più mattutina,
vedrei anche a te sfuggita,
ahimè, come già alla vita.

Ricordati perché ti mando:
altro non ti raccomando.
Ricordati che ti dovrà apparire
prima di giorno, e spia
(giacché, non so più come
ho scordato il portone)
da un capo all’altro la via,
da Cors’Amedeo al Cisterone.

Porterà uno scialletto
nero, e una gonna verde.
Terrà stretto sul petto
il borsellino, e d’erbe
già sapendo e di mare
rinfrescato il mattino,
non ti potrai sbagliare
vedendola attraversare.

Seguila prudentemente,
allora, e con la mente
all’erta. E, circospetta,
buttata la sigaretta,
accostati a lei soltanto,
anima, quando il mio pianto
sentirai che di piombo
è diventato in fondo
al mio cuore lontano.

Anche se io, così vecchio,
non potrò darti mano,
tu mormorale all’orecchio
(più lieve del mio sospiro,
messole un braccio in giro
alla vita) in un soffio
ciò ch’io e il mio rimorso
pur parlassimo piano,
non le potremmo mai dire
senza vederla arrossire.

Dille chi ti ha mandato:
suo figlio, il suo fidanzato.
D’altro non ti richiedo.
Poi, va’ pure in congedo.

da “Versi livornesi”)


                                        

Preghiera

Anima mia leggera,
va’ a Livorno, ti prego.
E con la tua candela
timida, di nottetempo
fa’ un giro; e, se n’hai il tempo,
perlustra e scruta, e scrivi
se per caso Anna Picchi
è ancora viva tra i vivi.
Proprio quest’oggi torno,
deluso, da Livorno.
Ma tu, tanto più netta
di me, la camicetta
ricorderai, e il rubino
di sangue, sul serpentino
d’oro che lei portava
sul petto, dove s’appannava.

Anima mia, sii brava
e va’ in cerca di lei.
Tu sai cosa darei
se la incontrassi per strada.


                                        

… Perch’io che nella notte abito solo

… perch’io, che nella notte abito solo
anch’io, di notte, strusciando un cerino
sul muro, accendo cauto una candela
e riscrivo in silenzio e a lungo il pianto
bianca nella mia mente –apro una vela
timida nella tenebra, e il pennino
che mi bagna la mente…
strusciando che mi scricchiola, anch’io scrivo.


                                        

Se non dovessi tornare, 
sappiate che non sono mai 
partito.

Il mio viaggiare 
è stato tutto un restare 
qua, dove non fui mai.

da “Il franco cacciatore”, 1973-1982


                                        

Parole (dopo l’esodo) dell’ultimo della Moglia

Chi sia stato il primo, non
è certo. Lo seguì un secondo. Un terzo.
Poi, uno dopo l’altro, tutti
han preso la stessa via.

Ora non c’è più nessuno.

La mia
casa è la sola
abitata.

Son vecchio.
Che cosa mi trattengo a fare,
quassù, dove tra breve forse
nemmeno ci sarò più io
a farmi compagnia?

Meglio – lo so – è ch’io vada
prima che me ne vada anch’io.
Eppure, non mi risolvo. Resto.
Mi lega l’erba. Il bosco.
Il fiume. Anche se il fiume è appena
un rumore ed un fresco
dietro le foglie.

La sera
siedo su questo sasso, e aspetto.
Aspetto non so che cosa, ma aspetto.
Il sonno. La morte direi, se anch’essa
da un pezzo – già non se ne fosse andata
da questi luoghi.

Aspetto
e ascolto.
(L’acqua,
da quanti milioni d’anni, l’acqua,
ha questo suo stesso suono
sulle sue pietre?)

Mi sento
perso nel tempo.

Fuori
dal tempo, forse.

Ma sono
con me stesso. Non voglio
lasciar me stesso – uscire
da me stesso come,
la notte, dal sotterraneo
il grillotalpa in cerca
d’altro buio.

Il trifoglio
della città è troppo
fitto. Io son già cieco.
Ma qui vedo. Parlo.
Qui dialogo. Io
qui mi rispondo e ho il mio
interlocutore . Non voglio
murarlo nel silenzio sordo
d’un frastuono senz’ombra
d’anima. Di parole
senza più anima.

Certo
(è il vento degli anni ch’entra
nella mente e ne turba
le foglie) a volte
il cuore mi balza in gola se penso
a quant’ho perso. A tutta
la gaia consorteria
di ieri. Agli abbracci. Gli schiaffi.
Alle matte risate,
la sera, all’osteria
dietro alle donne. Alte
da spaccar le vetrate.

Ma non m’arrendo. Ancora
non ho perso me stesso.
Non sono, con me stesso,
ancora solo.

E solo
quando sarò così solo
da non aver più nemmeno
me stesso per compagnia,
allora prenderò anch’io la mia
decisione.

Staccherò
dal muro la lanterna,
un’alba, e dirò addio al vuoto.

A passo a passo
Scenderò nel vallone.

Ma anche allora, in nome
di che, e dove
troverò un senso (che altri,
pare, non han trovato),
lasciato questo mio sasso?