Julio Cortázar

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Dopo le feste

«E quando tutti se ne andavano
e restavamo in due
tra bicchieri vuoti e portacenere sporchi,
com’era bello sapere che eri lì
come una corrente che ristagna,
sola con me sull’orlo della notte,
e che duravi, eri più che il tempo,
eri quella che non se ne andava
perché uno stesso cuscino
e uno stesso tepore
ci avrebbero chiamati di nuovo
a svegliare il nuovo giorno,
insieme, ridendo, spettinati».

 note:


                                        

Notte fonda

Quando saprai che sono morto non pronunciare il mio nome
Perché si fermerebbero la morte e il riposo.

La tua voce, che è la campana dei cinque sensi,
diventerebbe il tenue faro cercato dalla mia nebbia.

Quando saprai che sono morto di’ sillabe strane
Pronuncia fiore, ape, lacrima, pane, tormenta.

Non permettere alle tue labbra di trovare le mie undici lettere.
Ho sonno, ho amato, ho guadagnato il silenzio.

Non pronunciare il mio nome quando saprai che sono morto:
dall’oscura terra verrei per la tua voce.

Non pronunciare il mio nome, non pronunciare il mio nome.
Quando saprai che sono morto non pronunciare il mio nome.

Note: da “Il turno dell’offeso”


                                        

Alta hora de la noche

Cuando sepas que he muerto no pronuncies mi nombre
porque se detendría la muerte y el reposo.

Tu voz, que es la campana de los cinco sentidos,
sería el tenue faro buscado por mi niebla.

Cuando sepas que he muerto di sílabas extrañas
Pronuncia flor, abeja, lágrima, pan, tormenta.

No dejes que tus labios hallen mis once letras.
Tengo sueño, he amado, he ganado el silencio.

No pronuncies mi nombre cuando sepas que he muerto:
desde la oscura tierra vendría por tu voz.

No pronuncies mi nombre, no pronuncies mi nombre.
Cuando sepas que he muerto no pronuncies mi nombre.

Note: de El turno del ofendido


                                        

Il Futuro

E so molto bene che non ci sarai.
Non ci sarai nella strada,
non nel mormorio che sgorga di notte
dai pali che la illuminano,
neppure nel gesto di scegliere il menù,
o nel sorriso che alleggerisce il “tutto completo” delle sotterranee,
nei libri prestati e nell’arrivederci a domani.

Nei miei sogni non ci sarai,
nel destino originale delle parole,
nè ci sarai in un numero di telefono
o nel colore di un paio di guanti, di una blusa.
Mi infurierò, amor mio, e non sarà per te,
e non per te comprerò dolci,
all’angolo della strada mi fermerò,
a quell’angolo a cui non svolterai,
e dirò le parole che si dicono
e mangerò le cose che si mangiano
e sognerò i sogni che si sognano
e so molto bene che non ci sarai,
nè qui dentro, il carcere dove ancora ti detengo,
nè la fuori, in quel fiume di strade e di ponti.
Non ci sarai per niente, non sarai neppure ricordo,
e quando ti penserò, penserò un pensiero
che oscuramente cerca di ricordarsi di te.


                                        

Se devo vivere

Se devo vivere senza di te, che sia duro e cruento,
la minestra fredda, le scarpe rotte, o che a metà dell’opulenza
si alzi il secco ramo della tosse, che latra
il tuo nome deformato, le vocali di spuma, e nelle dita
mi si incollino le lenzuola, e niente mi dia pace.
Non imparerò per questo a meglio amarti,
però sloggiato dalla felicità
saprò quanta me ne davi a volte soltanto standomi nei pressi.
Questo voglio capirlo, ma mi inganno:
sarà necessaria la brina dell’architrave
perché colui che si ripari sotto il portale comprenda
la luce della sala da pranzo, le tovaglie di latte, e l’aroma
dl pane che passa la sua mano bruna per la fessura.
Tanto lontano ormai da te
come un occhio dall’altro,
da questa avversità che assumo nascerà adesso
lo sguardo che alla fine ti meriti.


                                        

Amo ogni tuo ciglio, ogni tuo capello, ti combatto in candidi corridoi
dove si giocano le fonti della luce,
ti discuto in ogni nome, ti strappo con delicatezza di cicatrice,
a poco a poco ti metto nei capelli cenere di lampo e nastri
assopiti nella pioggia.
Non voglio che tu abbia una forma, che tu sia esattamente
quello che viene dietro la tua mano,
perché l’acqua, pensa all’acqua, e ai leoni quando si
sciolgono nello zucchero della fiaba,
e ai gesti, architettura del nulla,
le loro lampade accese a metà dell’incontro.
Ogni domani è l’ardesia su cui ti invento e ti disegno,
pronto a cancellarti, non sei così, neppure con quei capelli lisci,
quel sorriso.
Cerco la tua somma, il bordo del bicchiere in cui il vino si fa
luna e specchio,
cerco quella linea che fa tremare un uomo
nella sala di un museo.
E poi ti voglio bene, nel tempo e nel freddo.