Beppe Fenoglio

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La morte improvvisa a quarantanni ha privato la letteratura italiana di uno scrittore di straordinario talento, anche se solo in parte espresso in vita: i tanti suoi scritti editi postumi, pur con operazioni di dubbia correttezza, non fanno che accrescere il rimpianto per ciò che avrebbe potuto sicuramente fare. Lo si ricorda, Fenoglio, per “Il partigiano Johnny”, un libro che nella veste di cui oggi disponiamo non è suo, e non dovrebbe nemmeno esistere come romanzo compiuto: suoi sono gli appunti (pagine spesso memorabili) che altri hanno arbitrariamente 
manipolato (persino il titolo non è dello scrittore), variando nel montaggio a scopi puramente editoriali nomi, sequenze, tempi e luoghi, inserendo spunti e parti di racconti già pubblicati. Tra i suoi più grandi ammiratori Luigi Meneghello che addirittura lo venerava e lo “invidiava” (“della mia materia lui ha fatto epica”), soprattutto per “Una questione privata” (1963), romanzo mutilo dell’epilogo per la malattia che lo avrebbe condotto alla morte, ma già interamente definito nella trama e approdato ad una splendida resa di scrittura.

“Scrivo per un’infinità di motivi. Per vocazione, anche per continuare un rapporto che un avvenimento e le convenzioni della vita hanno reso altrimenti impossibile, anche per giustificare i miei sedici anni di studi non coronati da laurea, anche per spirito agonistico, anche per restituirmi sensazioni passate; per un’infinità di ragioni, insomma. Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine ‘esce’ spensierata da una decina di penosi rifacimenti”.

Eppure, che forza nei suoi memorabili incipit!

Da “I ventitré giorni della città di Alba” (1952)

“Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944.”

Da “Un altro muro” (1952):

“Le due guardie marciavano come se ogni volta calassero i tacchi su capsule di potassa, Max camminava avanti tastandosi il petto. Lo sterno risaltava subito sotto le dita, era diventato magro da far senso a se stesso, per la fame patita in quei due mesi di neve sulle colline. Non c’era più polpa tra la pelle e lo sterno, le pallottole gliel’avrebbero schiantato immediatamente. Si strizzò la pelle e si arrestò netto. Uno dei soldati lo gomitò nella schiena e lui si ricamminò.”

Da “La malora” (1954) :

“Pioveva su tutte le langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra. Era mancato nella notte di giovedì l’altro e lo seppellimmo domenica, tra le due messe. Fortuna che il mio padrone m’aveva anticipato tre marenghi, altrimenti in tutta casa nostra non c’era di che pagare i preti e la cassa e il pranzo ai parenti. La pietra gliel’avremmo messa più avanti, quando avessimo potuto tirare un po’ su testa”.

Da “Pioggia e la sposa” (1954)

“Fu la peggior alzata di tutti i secoli della mia infanzia. Quando la zia salì alla mia camera sottotetto e mi svegliò, io mi sentivo come se avessi chiusi gli occhi solo un attimo prima,e non c’è risveglio peggiore di questo per un bambino che non abbia davanti a sé una sua festa o un bel viaggio promesso”.

“Un giorno di fuoco” (1955):

“Alla fine di giugno Pietro Gallesio diede la parola alla doppietta. Ammazzò suo fratello in cucina, freddò sull’aia il nipote accorso allo sparo, la cognata era sulla sua lista ma gli apparì dietro una grata con la bambina ultima sulle braccia e allora lui non le sparò ma si scaraventò giù alla canonica di Gorzegno. Il parroco stava appunto tornando da visitare un moribondo di là di Bormida e Gallesio lo fulminò per strada, con una palla nella tempia. Fu il più grande fatto prima della guerra d’Abissinia.”

Mario Allegri