Cristina Campo

da Gli imperdonabili (Adelphi 1987)



(parco dei cervi) …….

Se qualche volta scrivo è perché certe cose non vogliono separarsi da me come io non voglio separarmi da loro. Nell’atto di scriverle esse penetrano in me per sempre – attraverso la penna e la mano – come per osmosi. 
Nella gioia, noi ci muoviamo in un elemento che è del tutto fuori del tempo e del reale, con presenza perfettamente reale. 
Incandescenti, attraversiamo i muri.

Storia meravigliosa del Faraone Micerino, condannato dagli dèi a morire giovane. Non trova grazia ai loro occhi la sua dolce clemenza, che ha tradito il destino tragico dell’Egitto dopo le tirannidi di Cheope e di Chefren. Ed egli fa illuminare i suoi palazzi e i suoi parchi da migliaia di lampade. Delle notti farà altrettanti giorni e vivrà così dodici anni anziché i sei che gli rimangono.

“E certo una parabola del poeta, questo nemico involontario della legge di necessità. Che può fare il poeta ingiustamente punito se non mutare le notti in giorni, le tenebre in luce? Mantenere alla vita ciò che la vita ci promise invano, come direbbe Hofmannsthal.”

Altre sue citazioni

“L’amore è per essenza tragico perché da esso -solo da esso – la freccia del nostro presente vola istantaneamente a configgersi nel futuro: superando di colpo tutto lo spazio che noi dovremo lentamente percorrere, fissando un termine ignoto a cui non potremo in alcun modo sottrarre la nostra anima. “
“ lo tenni li piedi in quella parte della vita di là della quale non si puote ire più per desiderio di ritornare”.

“Percepire è riconoscere ciò che soltanto ha valore, ciò che soltanto esiste veramente. E che altro veramente esiste in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo?”


                                        

III.

Poesia è l’arte di caricare ogni parola del suo massimo significato.

IV.

Buttate fuori tutti i critici che usano vaghi termini generici; non solo quelli che usano vaghi termini generici perché sono troppo ignoranti per dar loro un significato, ma quelli che usano vaghi termini per nascondere il significato; e tutti quei critici che usano i loro termini in modo così vago che il lettore può immaginare siano d’accordo con lui o gli diano ragione mentre non è così: col che intendo dire che i loro articoli possono sempre apparire in solide e rispettate riviste senza scatenare una zuffa o provocare le proteste degli abbonati. La prima credenziale che noi dobbiamo esigere da un critico è la sua ideografia del bello, di ciò che egli considera scrittura valida e di tutti, tutti i suoi termini generici. Allora sapremo a che punto si trova.

Non potrò mai ripetere troppo spesso o con troppa energia la mia diffidenza (caution) per i cosiddetti critici che parlano di tutto intorno all’argomento e non definiscono i loro termini e non sanno dire francamente che certi autori sono una scocciatura meledetta. Fatevi dire da un uomo prima,  e con tutti i particolari, quali sono per lui i buoni scrittori: solo dopo ne ascolterete le spiegazioni.

(da La tigre assenza, Adelphi)


                                        

Guido Ceronetti nella presentazione del libro “Gli imperdonabili”:

Solo amorose, leggere mani possono, è certo, in questo volume aver composto la forma letteraria, la figura mentale che fu Cristina Campo, nome artificiale e connaturato, a cui non va associato l’attributo impoverente e generico di scrittrice.
È vero, com’è qui provato, Cristina Campo scrisse: ma come artisti d’Estremo Oriente dipinsero, senza il cubo Professione Pittore ad incementarli; scrisse, ma come l’attore di nō spreme sulla scena quel che Zeami chiama il Fiore e poi crolla, si annulla e non ritorna per inchinarsi, perché quel che si mostrerebbe attore rimanga fiore.
Esistono, certo, le scrittrici; variamente libere, belle e brutte, noiose e acute, scatenate, documentanti, tutte moderne, ambiziose, mai disoccupate – però è una sorte: meno sono scrittrici e più scrittori, più valgono: nella scrittrice-scrittrice si avverte in genere la penuria di attività solare, un rallentamento, la riluttanza della parola a pigliare la via dell’ombra, mentre nella scrittrice-scrittore il limite è nell’atto chirurgico del suo androginizzarsi per impadronirsi di visioni e forme non sue: difficilmente attingerà il sublime. Strana sorpresa fanno questi scrittori nati donna: quel che ci appariva come un energumeno di scrittore rivelarsi una donna travestita, una che ha sofferto per varcare il confine.
Donne, invece, cifrate come Emily Brontë, Caterina da Siena, Eloisa del Paracleto, Rabia, Emily Dickinson, Teresa d’Avila, Anna-Caterina Emmerich, Marina Cvetaeva, Simone Weil o questa nostra rara Cristina Campo, non sono iscrivibili né tra le scrittrici né tra gli scrittori; l’editoria le serve e non ne è servita; lette, resta di loro nel lettore stupito un’impressione diversa da quella che il libro lascia. Più tenue, più prossima a dove l’oblio abita.
Non dico che si dimentichino, ma che sono più prossime alla Dimenticanza. In loro il saeculum ha meno realtà e presa di mondo. La Vida teresiana non lascia traccia; dalle lettere cateriniane emergono nitide le parole incessanti (sangue, fuoco, dilezione, bagnatevi…) e in una nebbiosità sibillina si tiene arretrata la sostanza magistrante, il midollo epistolare. È, negli esseri magicamente femminili in cui discende la parola, il contatto con l’inesprimibile (di cui la Campo fu esperta). L’Inesprimibile passa e ci tocca, ma così leggermente da non arrivare a modificarci sensibilmente… I veri scrittori lasciano sempre un segno, mentre queste filatrici d’inesprimibile, non curando di piantare segni, ne sono uno. Ciascuna di loro è un’idea. Sono come segni diacritici in cui la piena anarchia del suono si attenua perché la grazia, divina sempre, imponga all’energia la sua legge.
Molti anni fa, tra i pochissimi che recensirono Il flauto e il tappeto, mi parve adeguato chiamare Cristina «lo scrittore Campo»: definizione, si è visto, che non tiene; sia cancellata. Se ne veda l’unicità e la beatitudine nel canto di Piccarda: librata in uno spazio spirituale di esilio e canto, senza misura.
Si spese principalmente nell’erudizione, Cristina Campo, e nel verso mistico, con qualche sovrana prova di traduttrice in versi (John Donne) ma in un’erudizione multipla di un genere così raro da insospettire: batte vie meno impervie una normale letterata, meno inutili, anche. In realtà diventava prodigiosamente dotta, s’impregnava di dottrina, qualsiasi cosa fosse da lei presa, definita, scrutata, trattata. Meglio direi: assunta. L’erudizione non era che il manifestarsi della sua ispirazione, il rivelarsi in lei della parola abscondita.
Cristina Campo l’esile la morente fu un segno; e la raccolta di quel che di sé ha lasciato al termine di un umbratile, filtrato viaggio nell’esistenza, in cui ci apparve come un’inferma che di rado lasciava il letto, ne è la musicale testimonianza. Una luce – per chi è in grado, per intuitiva iniziazione, di riconoscere quel che sia Pneuma e filialità luminosa, ancora.