Chi giace nella tomba di un poeta? In ogni caso non il poeta, questo è
sicuro. Il poeta è morto, altrimenti non avrebbe una tomba. Ma chi è morto non
si trova più da nessuna parte, nemmeno nella propria tomba. Le tombe sono
ambigue: custodiscono qualcosa e non custodiscono niente. Questo, naturalmente,
vale per qualsiasi tomba, ma nel caso di quelle dei poeti e degli scrittori c’è
anche qualcosa d’altro. C’è una differenza. La maggior parte dei morti tace.
Non dice più niente. Ha – letteralmente – già detto tutto. Per i poeti non è
così. I poeti continuano a parlare. A volte si ripetono. Succede ogni volta che
qualcuno legge o recita una poesia per la seconda o per la centesima volta.
Parlano anche ai non nati, a chi non viveva ancora quando hanno scritto quel
che hanno scritto.
Perché si va sulla tomba di una persona che non si è mai conosciuta? Perché ci
dice ancora qualcosa, perché dice qualcosa a te, qualcosa che ti risuona ancora
nelle orecchie, che ti è rimasta in testa e probabilmente non potrai mai dimenticare,
qualcosa che conosci a memoria e che di tanto in tanto, a bassa o ad alta voce,
ripeti. Con una persona di cui si ricordano le parole si ha una relazione di
qualche tipo. Ma questo non è ancora sufficiente per andare sulla sua tomba.
Qualsiasi cosa facciamo con le tombe è irrazionale. Portiamo fiori per nessuno,
strappiamo le erbacce per nessuno, e la persona per cui andiamo lì non sa nulla
della nostra presenza. Eppure continuiamo a farlo. C’è ancora qualcosa che
vogliamo dai morti. Nel segreto del nostro cuore pensiamo che lui, o lei, ci
veda, si accorga che pensiamo ancora a lui, o a lei. Perché è questo che
vogliamo: vogliamo essere notati dai morti, vogliamo che sappiano che ancora li
leggiamo, perché continuano a parlarci. Mentre stiamo lì in piedi davanti alle
loro tombe siamo circondati dalle loro parole. La persona non c’è più, ma ci
sono ancora le parole, i pensieri. Il minimo che si possa fare è ricambiare un
pensiero. Ogni visita alla tomba di un poeta è un dialogo in cui le risposte precedono
tutto quanto noi possiamo dire. È un paradosso. Qualcosa è stato detto, ma non
c’è stata nessuna domanda. Siamo venuti qui per manifestare il nostro accordo,
per essere in prossimità delle parole già pronunciate. Chi ha scritto quelle
parole era già morto, ma le parole vivevano ancora. Potevi recitarle ad alta
voce, come le pronunciava l’altro. Per questo sei venuto qui: per ascoltare di
nuovo quelle parole nel silenzio della morte.
Durante gli ultimi anni ho visitato innumerevoli tombe di poeti e di scrittori
e la sensazione è sempre la stessa: si va a far visita a dei morti che si
conoscono meglio della maggior parte dei vivi. Si trovano dentro muri, su
colline, sotto umili lapidi o monumenti pomposi, in grandi città o su isole
lontane, accanto a sconosciuti o ad altri grandi, si trovano lì da tanto tempo
che perfino l’iscrizione sulla tomba è invecchiata, oppure la tomba è stata
appena scavata; le lapidi sono erette o distese, non si sono scelti i loro
vicini, dormono nel marmo o nel petit-granit accanto a professori e a
ufficiali, con o senza le loro mogli o i loro padri, con o senza le loro parole
scolpite, le parole che già conoscevi, che sono state scritte un tempo con
l’inchiostro sulla carta e che ora si sono pietrificate.
Ho ormai trascorso un’intera vita in compagnia della poesia e ho imparato che
non è una cosa che si possa spiegare facilmente. Per la maggior parte delle
persone la poesia quasi non esiste nemmeno, o è molto marginale. Capita di rado
che domini una vita intera, e non solo la scrittura, ma anche la lettura. In
ogni caso non si tratta di una decisione consapevole, accade da sé. La maggior
parte delle persone si allontana dalla poesia per il modo in cui viene
affrontata a scuola: come un dovere, una cosa che si deve fare. Linguaggio che
si comporta diversamente dal solito, che si fa all’improvviso estraneo. Le
parole di sempre, ma come se venissero da un altro mondo. Si ritiene che ognuno
debbaconoscere i classici del proprio paese, mentre i classici andrebbero letti
per ultimi, quando la fredda tecnica della versificazione, l’ortografia
antiquata, la straniante ginnastica della metrica non rappresentano più un
ostacolo all’emozione e si riesce infine a penetrare quel linguaggio solenne e,
per il nostro modo di sentire, affannoso. È quell’istante meraviglioso in cui
ci si rende conto che dall’altra parte del muro del tempo c’è qualcuno che ci
parla.
In tutta la grande poesia, anche in quella più moderna, è custodita l’eredità
dei classici, del passato, di tutto ciò che è stato conservato per noi
attraverso i secoli. Se si ha pazienza e si è pronti ad affrontare la fatica,
quell’eredità giunge come un dono.
Forse per questo la cosa migliore è leggere in due direzioni: partendo dal
presente e dirigendosi verso il passato e poi in senso inverso. Allora si
scopre che quel che trovavi meraviglioso nel momento in cui hai cominciato a
leggere, perché ti toccava in modo così diretto e immediato, poi può perdere un
po’ del suo effetto, e invece ti rendi conto del valore di quel che prima ti appariva
impenetrabile, oscuro, ermetico. Se vuoi dire qualcosa che davvero spaventi la
gente, cita Shelley e afferma che la poesia è una cosa che «comprende tutte le
scienze e a cui tutte le scienze fanno riferimento», e aggiungi che leggere
poesia è una professione. È sgradevole a sentirsi, ma è la verità. È una
professione che si impara leggendo poesia. I poeti che leggi diventano, insieme
a te, i tuoi maestri e il processo di apprendimento dura tutta la vita. Il
palazzo della poesia ha un numero infinito di abitazioni tra loro tanto diverse
quanto lo sono i poeti e le epoche, le società e le tradizioni entro cui sono
vissuti. Il lettore entra ed esce dal palazzo, non può immaginarsi una vita
senza poesia, vive in un continuo alternarsi di voci e di lingue, in un
incessante dialogo da torre di Babele tra lingue infuocate. Per chi davvero ama
la poesia è sempre Pentecoste.
Oggi non posso più leggere quel che ho letto ieri. Il settantenne legge poesie
diverse da quelle di quando aveva diciassette anni. Allora erano Gorter, Rilke
o Eluard, ora sono Stevens o Juarroz, Montale o Celan, Tranströmer o Kouwenaar,
Pessoa, Elizabeth Bishop, Pilinszky, Herbert, Heaney, Claus. Il che non
significa che io non legga più i nomi di un tempo. Mi sono necessari come
allora, come mi sono necessari Campert e Vallejo, Slauerhoff e Rimbaud. So dove
si trovano, mi basta evocarli. La poesia è costante nel suo significato più
profondo, ma parla con voci sempre diverse, e nel modo più personale,
dell’universale e del mondo, e allo stesso modo illustra e accompagna
quell’amalgama di finzione e di realtà che noi siamo. La forma che adotta non è
mai uguale a se stessa, perché non lo siamo neanche noi. Abbiamo sempre bisogno
di diverse poesie e di diversi poeti, cupi o luminosi, ironici o epici, poeti
del tempo ciclico e del tempo lineare, poeti della città e della natura, del
mondo o opposti al mondo. Ora desidero che la poesia sia modesta, scarna,
ascetica; ora invece desidero che canti, che si metta anche a gridare. Vorrei
che riflettesse su se stessa, che si affliggesse, che quasi non dicesse nulla,
che balbettasse e le mancassero le parole, oppure che celebrasse la vita e ci
rintronasse con un’alluvione di parole. Ci sono momenti in cui vorrei perdermi
nella sua oscurità, ed altri in cui desidero che scriva con la mordace
incisività del bulino. Non posso essere sempre lo stesso e non pretendo che lo
sia la poesia. L’unica cosa che pretendo è che ci sia: ermetica, chiara,
razionale, metafisica, danzante, contemplativa. Che parli del mondo in cui
vivo, del mondo reale, del mondo inventato, transeunte, pericoloso, possibile,
impossibile, esistente. E so che ci sarà sempre, con tutte le sue maschere, con
tutti i suoi nomi e le sue forme, i suoi autori e i suoi lettori, un elemento
della natura come l’acqua e la terra, il fuoco e l’aria. Chi siano i suoi
lettori non lo sappiamo. «Una gigantesca minoranza», ha detto Juan Ramón
Jiménez, e perché no?
Si può ascoltare la poesia in piccole stanze o in grandi sale, ma per leggerla
bisogna isolarsi, bisogna essere soli. Queste persone formano una comunità di
cui conoscono l’esistenza. In tal senso i lettori di poesia sono come monaci
certosini: spesso insieme, quasi sempre soli. Leggere è una cosa che si fa in
solitudine, è un’avventura dello spirito: chi cerca una chiarezza immediata e
rifugge l’ignoto fa meglio a tenersi alla larga dalla poesia, perché lui, o
lei, non troverà mai soddisfazione, né nella mistica Hadewijch né in Góngora, e
nemmeno in Eliot, Paz o Celan. A me è capitato spesso di non capirli, nemmeno
quando li traducevo, come nel caso di Montale o di Vallejo. Ma non importava.
Il lettore è la cera, la poesia è il sigillo: qualcosa mi parlava e io sapevo
cosa mi veniva detto anche senza capirlo. A volte sono rimasto afissare dei
versi di Wallace Stevens, desiderando che mi svelasse il segreto nascosto
nell’ermetico spazio bianco intorno alle parole. Lui mi avrebbe detto che non
aveva importanza, che non potevo leggere la sua poesia come se fosse una
lettera o un messaggio, che avevo bisogno di tempo per lasciarla penetrare
dentro di me, oppure che la lingua non può sopravvivere se non può essere di
tanto in tanto oscura e incomprensibile, perché la sua successiva chiarezza
scaturisce proprio dalle avventure vissute mentre si spingeva in terreni fino
ad allora inaccessibili.
«Spesso bisogna dire le cose in modo complicato», ha dichiarato una volta
Thomas Eliot durante un’intervista rilasciata a Donald Hall. «Mentre scrivevo
La terra desolata non me ne importava nulla di sapere quel che stavo dicendo.»
Il poeta come druido, come medium: un’idea che naturalmente risulta orribile
agli spiriti positivisti. Comunque sia, esattamente come gli esseri umani non
possono vivere senza sogni pericolosi e sorprendenti, così il mondo non può
fare a meno della poesia, e con ciò non intendo niente di sognante.
L’amore per la poesia ha probabilmente inizio nell’età delle forti passioni,
quando ancora si è convinti che un grande sentimento produca grande poesia. La
maggior parte della gente non supera mai questo malinteso, ce ne si rende ben
conto guardando i necrologi e i contributi inviati alle riviste letterarie. Per
me c’è un’unica legge: la legge dell’autenticità e della logica interna. In una
poesia tutto deve quadrare, ma i criteri per stabilirlo sono assolutamente
personali, sia nello scrivere che nel leggere. Non c’è niente di dimostrabile,
ma c’è molto che si può dire. In ultima istanza si tratta di istinto e di
esperienza. E ogni lettore ha le sue preferenze, che possono cambiare
radicalmente nel corso degli anni. Io non scrivo versi in rima, ma questo non
significa che i versi in rima non mi piacciano. Nel mio pantheon c’è Eugenio
Montale, che una volta ha affermato che le rime sono «dame di San Vincenzo» che
«battono alla porta e insistono», ma c’è anche un poeta come Gottfried Benn con
le sue rime inattese, abbaglianti, che colpiscono con la loro esotica
stravaganza, proprio come Slauerhoff fa provare al lettore il gusto amaro del
suo Messico facendo rimare pampa’s (il plurale di pampa) con dampwaas (un velo
di vapore), cosa che nessuno dopo di lui oserà mai più fare nella lingua
nederlandese. Insomma, il mio canone è fluido, e questo non ha niente a che
fare con l’eclettismo postmoderno, ha invece a che fare con l’autenticità. Le
poesie di questi autori scelti a caso quadrano, sono concluse, hanno trovato la
loro forma assoluta, sono compatte.
I poeti di cui ho visitato le tombe sapevano tutto questo. Non svelo alcun
segreto. Ho fatto loro visita perché sono parte della mia vita, perché la mia
vita l’hanno accompagnata nei modi più diversi e in diversi momenti. A volte si
è trattato di poeti nel senso tedesco del termine, come nell’espressione
Dichter und Denker, scrittori e filosofi, il che significa: accanto a Celan e
Dante, anche Descartes e Wittgenstein, Mann e Kafka, e a volte, come nei casi
di Borges o di Joyce, una combinazione dei due aspetti. Per me sono voci vive.
Anche circondato da migliaia di lapidi, non ho mai la sensazione di essere in
visita a un morto. Il rapporto è sempre personale, perfino con poeti estinti da
moltissimo tempo, come Virgilio, Hölderlin o Leopardi. Mi appartengono. A volte
mi sono messo in viaggio apposta per loro, altre mi sono trovato per caso nelle
loro vicinanze, diretto a una destinazione diversa. In una vita trascorsa tra i
viaggi sono cose che capitano. Simone Sassen e io abbiamo chiamato Incontri il
racconto dei nostri pellegrinaggi. Alcuni erano solo suoi, e allora c’è solo la
fotografia. A volte ho desiderato scrivere di qualcuno di cui non siamo
riusciti a visitare la tomba. Fotografare tombe è difficile: non c’è solo la
tomba, ma anche tutto quello che le sta intorno. I vicini casuali sono
invadenti e vogliono entrare nella foto; la tomba non è ancora pronta o è solo
provvisoria; oppure l’implacabile progresso ha fatto di quel che era un luogo
tranquillo o addirittura sacro un ossimoro contagioso: l’elevato tono oracolare
di René Char mutato in una borghese tomba di famiglia; l’eterno isolamento di
Leopardi esiliato tra le esalazioni di benzina di un tunnel automobilistico;
l’antico monumento a Virgilio che si erge come un dito di pietra sullo sfondo
di un quartiere degradato; la voce monomaniacale, concitata di Thomas Bernhard
rinchiusa dietro due porticine in ferro insieme ad altri due morti. La tomba di
Paul Valéry, inondata dalla luce del sole mediterraneo al Cimetière Marin, è di
un bianco glaciale, come neve polare. La stessa cosa accade un anno piùtardi
alla tomba di Flaubert, nel cimitero di Rouen, e io immagino l’autore di Madame
B. mentre, di notte, sguscia a fatica dalla sua tomba angusta e si svincola
dall’abbraccio soffocante del padre per andare a far visita a Marcel Duchamp
che giace lì dietro l’angolo, circondato da un piccolo esercito di altri
Duchamp, non fosse altro che per farsi insieme quattro risate sul motto che
l’artista ha fatto apporre alla sua lapide: D’ailleurs, c’est toujours les
autres qui meurent («D’altronde sono sempre gli altri a morire»).
Quando ha avuto inizio? Mi era già capitato spesso di essere presente quando
colleghi del mio paese, più anziani o più giovani, incominciavano il loro
lungo, incerto e ultimo viaggio attraverso le antologie e i manuali: strane
feste all’incontrario nella sala cerimonie di un cimitero in cui ci si rivedeva
tutti. Le rivalità letterarie venivano momentaneamente sospese, si facevano le
condoglianze a inverosimili famigliari (gli scrittori non hanno famiglia) e si
rifletteva in silenzio su quanto tempo avrebbe resistito l’opera del deceduto
sullo sfondo dell’inimmaginabile eternità.
Partecipare alle cerimonie funebri e far visita alle tombe non sono però la
stessa cosa. Per dirlo nel modo più semplice possibile: una tomba deve essere
chiusa, e preferibilmente già da un po’. Lo sguardo che si inabissa all’interno
della fossa e si ferma a contemplare la cassa, con tutti i pensieri che questo
suscita, è ancora troppo legato alla vita. Rendere visita alla tomba di un
poeta è un pellegrinaggio alle sue opere complete. E anche questo è un
paradosso, perché per avere accesso alle opere non c’è bisogno di andare sulla
sua tomba. Se vale, quell’opera si trova già nella tua libreria, hai solo
bisogno di prenderla. I poeti non si trovano nelle loro case abbandonate,
insieme alla loro pipa morta, agli occhiali ciechi e ai manoscritti tanto
presto ingialliti. Non si trovano nemmeno nei monumenti o nelle tombe, ma solo
e soltanto nei loro libri. Perché allora è commovente – non trovo una parola
migliore – in una torrida giornata estiva, dopo ore e ore passate a cercare in
un cimitero piccolo e appartato, trovarsi all’improvviso di fronte al muro
dietro cui, o dentro cui, Eugenio Montale è sepolto insieme a centinaia di
altre persone? Sembra che abbia voluto avvolgersi nell’anonimato della folla
come in un protettivo mantello: gente normale, il cui nome non avrebbe suscitato
alcun ricordo se non nei famigliari, finché sarebbero rimasti in vita. In alto
a sinistra giace Umberto Manetti, in alto a destra la vedova Oliva Pighetti, a
destra accanto a lui Teresa Fontana, dall’altro lato Emilio Cammili. Magari
hanno letto le sue poesie, magari amavano l’opera e leggevano sul Corriere
della Sera le sue recensioni. O forse no, naturalmente. Si può mai dire di
conoscere qualcuno? Ma se non lo conosco, com’è possibile che io lo senta?
CEES NOOTEBOOM – Tumbas (Tombe di poeti e pensatori) – Ed. IPERBOREA
curato da Alfredo Poli